Di: Giammarco Guzzetti
Foto: Matthias Baus
Settembre 1870: l’Otello di Rossini va in scena per l’ultima volta alla Scala di Milano; 145 anni dopo il grande ritorno, ed è stato un successo clamoroso, in primis per il cast eccezionale nel quale spiccavano i grandi nomi di Gregory Kunde (Otello), Juan Diego Flórez (Rodrigo) e Olga Peretyatko (Desdemona), senza dimenticare il direttore Muhai Tang e la sua orchestra.
Proprio cominciando dal maestro di Shangai, pur criticato da alcuni nelle precedenti recite, occorre sottolineare la brillantezza con cui Tang ha condotto l’orchestra scaligera, esaltando una partitura meravigliosa che da troppo tempo mancava in un teatro così importante. Perfetta l’esecuzione dell’ouverture, e del maestoso finale del I atto. Tang ha fatto trionfare la musica quando essa era pienamente protagonista ma ha fornito anche un valido sostegno alle voci dei protagonisti.
Come sempre impeccabile il Coro del Teatro alla Scala diretto dal maestro Bruno Casoni.
Dopo il successo nei Troyens di Berlioz nella scorsa stagione, Gregory Kunde torna alla Scala nei panni del moro di Venezia, una parte che si adatta perfettamente alla sua voce eroica. Prestazione da incorniciare per correttezza vocale e intonazione; il tenore statunitense impressiona per talento e presenza scenica ad ogni sua apparizione. Sublime il duetto/terzetto del secondo atto con Rodrigo e Desdemona anche se il momento più alto della prestazione di Kunde rimane il tragico finale dell’opera, nel quale il protagonista sfoggia una padronanza della scena e delle capacità recitative – oltre che una voce perfetta – davvero rare.
L’indimenticabile performance di Gregory Kunde si somma a quella altrettanto valida e acclamata di Juan Diego Flórez, nei panni di Rodrigo che nell’opera rossiniana diventa, forse più di Jago, il vero nemico di Otello.
Pubblico in delirio per l’eccellente tenore peruviano, premiato con cinque minuti di applausi a scena aperta e tante acclamazioni alla fine dell’impegnativa aria “Che ascolto ohimé che dici” del II atto, forse il momento più atteso di tutta l’opera.
Flórez si dimostra all’altezza dell’importante ruolo ideato da Rossini e dal librettista Francesco Berio di Salsa come perno fondamentale di tutta l’azione drammatica, destreggiandosi con classe e talento sulle montagne russe di acuti e fioriture della partitura rossiniana.
Anche se meno calda e profonda di quella di Kunde, la voce di Flórez non cede e non arranca mai, superando agevolmente ogni momento dell’azione.
Flórez è un talento vero, un purosangue del belcanto che ha saputo conquistarsi il rispetto di un pubblico notoriamente esigente che premia solo i migliori. Bravo!
Edgardo Rocha, giovane tenore uruguayano, è stato un ottimo Jago. Nei pochi momenti in cui la figura di Jago s’impone al centro della scena e dell’azione, Rocha si è mostrato pronto e preciso, riuscendo a catturare l'attenzione del pubblico.
Gli unici due personaggi femminili del cast hanno convinto davvero tutti: Annalisa Stroppa (Emilia) ha mostrato una sicurezza vocale che le avrebbe permesso tranquillamente di interpretare il ruolo dell’amante sfortunata, Desdemona, che invece è toccato alla russa Olga Peretyatko. Spalleggiata e sostenuta dall’onnipresente Emilia, la Peretyatko ci ha messo un po’ a carburare, si è fatta attendere, ha indugiato, per poi regalare ai presenti una voce da usignolo che si è imposta in tutta la sua bellezza e sicurezza nella commovente Canzone del Salice del III atto, accompagnata da un’arpa sublime.
Fresca vincitrice del Premio Abbiati della Critica Italiana, la Peretyatko si è confermata interprete rossiniana di eccezione, sempre intonata anche se, forse, un pochino intimidita nelle prime battute dell’opera.
E come non citare il basso parmigiano Roberto Tagliavini che ha davvero convinto nei panni di Elmiro, il padre di Desdemona. Interprete perfetto per questo personaggio, Tagliavini mette in mostra una voce sicura di sé stabile e ferma che colpisce in ogni momento, specialmente quando si scaglia potente contro la povera Desdemona, maledetta dal padre che non può tollerare il suo amore per Otello.
Applausi anche per Nicola Pamio (il Doge) e Sehoon Moon (il gondoliere), solista dell’Accademia di Perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala.
Il cast stellare, sfortunatamente, non è stato accompagnato da un altrettanto valida regia e scenografia; ancora una volta infatti, si deve registrare il flop clamoroso di un regista e scenografo, Jürgen Flimm che, a pieno titolo, va ad allungare la lista di tutti quei registi – o presunti tali – che ormai da troppo tempo pensano di poter far scempio del mondo dell’opera lirica con messe in scena bizzarre o addirittura sgradevoli, oltre che scorrette.
Non che ci si aspettasse molto da scenografie realizzate a partire dai bozzetti di Anselm Kiefer (il realizzatore dei sette palazzi celesti all’Hangar Bicocca), ma il risultato finale è stato davvero scadente e deprimente.
Un orrido telone bianco ha impacchettato e coperto il fondo della scena fino al momento dell’uccisione di Desdemona quando, crollando, ha scoperto i magazzini e le rimesse del teatro.
Una scena ancora più bianca, riempita di sedie, anch’esse bianche, in stile giardino pubblico parigino, disposte prima per un grande banchetto in onore di Otello vincitore dei Turchi, e poi a mo’ di giardino di una località termale dei primi del ‘900, attorno ad un buffet degno di un villaggio turistico.
Se a tutto questo aggiungiamo dei movimenti scenici alquanto bizzarri e meccanici, le ancelle del doge che passano la scopa e poi bagnano il terreno con dei diffusori che ricordano molto quelli che si usano per fertilizzare il terreno e tavoli ingombranti e pesanti, difficili da spostare, allora non si può esitare a definire la regia scadente, e le scene sgradevoli alla vista.
Fortunatamente le realizzazioni artistiche e i lavori mediocri vengono presto dimenticati, e così sarà per gli allestimenti di Flimm, totalmente ignorati dal pubblico che, invece, ha saputo concentrarsi su ciò che veramente era degno di nota: un cast sublime, un orchestra in piena forma e un’opera, l’Otello di Rossini appunto, che per troppo tempo è stata dimenticata e che invece rientra a pieno titolo tra i maggiori melodrammi operistici italiani.
Foto: Matthias Baus
Settembre 1870: l’Otello di Rossini va in scena per l’ultima volta alla Scala di Milano; 145 anni dopo il grande ritorno, ed è stato un successo clamoroso, in primis per il cast eccezionale nel quale spiccavano i grandi nomi di Gregory Kunde (Otello), Juan Diego Flórez (Rodrigo) e Olga Peretyatko (Desdemona), senza dimenticare il direttore Muhai Tang e la sua orchestra.
Proprio cominciando dal maestro di Shangai, pur criticato da alcuni nelle precedenti recite, occorre sottolineare la brillantezza con cui Tang ha condotto l’orchestra scaligera, esaltando una partitura meravigliosa che da troppo tempo mancava in un teatro così importante. Perfetta l’esecuzione dell’ouverture, e del maestoso finale del I atto. Tang ha fatto trionfare la musica quando essa era pienamente protagonista ma ha fornito anche un valido sostegno alle voci dei protagonisti.
Come sempre impeccabile il Coro del Teatro alla Scala diretto dal maestro Bruno Casoni.
Dopo il successo nei Troyens di Berlioz nella scorsa stagione, Gregory Kunde torna alla Scala nei panni del moro di Venezia, una parte che si adatta perfettamente alla sua voce eroica. Prestazione da incorniciare per correttezza vocale e intonazione; il tenore statunitense impressiona per talento e presenza scenica ad ogni sua apparizione. Sublime il duetto/terzetto del secondo atto con Rodrigo e Desdemona anche se il momento più alto della prestazione di Kunde rimane il tragico finale dell’opera, nel quale il protagonista sfoggia una padronanza della scena e delle capacità recitative – oltre che una voce perfetta – davvero rare.
L’indimenticabile performance di Gregory Kunde si somma a quella altrettanto valida e acclamata di Juan Diego Flórez, nei panni di Rodrigo che nell’opera rossiniana diventa, forse più di Jago, il vero nemico di Otello.
Pubblico in delirio per l’eccellente tenore peruviano, premiato con cinque minuti di applausi a scena aperta e tante acclamazioni alla fine dell’impegnativa aria “Che ascolto ohimé che dici” del II atto, forse il momento più atteso di tutta l’opera.
Flórez si dimostra all’altezza dell’importante ruolo ideato da Rossini e dal librettista Francesco Berio di Salsa come perno fondamentale di tutta l’azione drammatica, destreggiandosi con classe e talento sulle montagne russe di acuti e fioriture della partitura rossiniana.
Anche se meno calda e profonda di quella di Kunde, la voce di Flórez non cede e non arranca mai, superando agevolmente ogni momento dell’azione.
Flórez è un talento vero, un purosangue del belcanto che ha saputo conquistarsi il rispetto di un pubblico notoriamente esigente che premia solo i migliori. Bravo!
Edgardo Rocha, giovane tenore uruguayano, è stato un ottimo Jago. Nei pochi momenti in cui la figura di Jago s’impone al centro della scena e dell’azione, Rocha si è mostrato pronto e preciso, riuscendo a catturare l'attenzione del pubblico.
Gli unici due personaggi femminili del cast hanno convinto davvero tutti: Annalisa Stroppa (Emilia) ha mostrato una sicurezza vocale che le avrebbe permesso tranquillamente di interpretare il ruolo dell’amante sfortunata, Desdemona, che invece è toccato alla russa Olga Peretyatko. Spalleggiata e sostenuta dall’onnipresente Emilia, la Peretyatko ci ha messo un po’ a carburare, si è fatta attendere, ha indugiato, per poi regalare ai presenti una voce da usignolo che si è imposta in tutta la sua bellezza e sicurezza nella commovente Canzone del Salice del III atto, accompagnata da un’arpa sublime.
Fresca vincitrice del Premio Abbiati della Critica Italiana, la Peretyatko si è confermata interprete rossiniana di eccezione, sempre intonata anche se, forse, un pochino intimidita nelle prime battute dell’opera.
E come non citare il basso parmigiano Roberto Tagliavini che ha davvero convinto nei panni di Elmiro, il padre di Desdemona. Interprete perfetto per questo personaggio, Tagliavini mette in mostra una voce sicura di sé stabile e ferma che colpisce in ogni momento, specialmente quando si scaglia potente contro la povera Desdemona, maledetta dal padre che non può tollerare il suo amore per Otello.
Applausi anche per Nicola Pamio (il Doge) e Sehoon Moon (il gondoliere), solista dell’Accademia di Perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala.
Il cast stellare, sfortunatamente, non è stato accompagnato da un altrettanto valida regia e scenografia; ancora una volta infatti, si deve registrare il flop clamoroso di un regista e scenografo, Jürgen Flimm che, a pieno titolo, va ad allungare la lista di tutti quei registi – o presunti tali – che ormai da troppo tempo pensano di poter far scempio del mondo dell’opera lirica con messe in scena bizzarre o addirittura sgradevoli, oltre che scorrette.
Non che ci si aspettasse molto da scenografie realizzate a partire dai bozzetti di Anselm Kiefer (il realizzatore dei sette palazzi celesti all’Hangar Bicocca), ma il risultato finale è stato davvero scadente e deprimente.
Un orrido telone bianco ha impacchettato e coperto il fondo della scena fino al momento dell’uccisione di Desdemona quando, crollando, ha scoperto i magazzini e le rimesse del teatro.
Una scena ancora più bianca, riempita di sedie, anch’esse bianche, in stile giardino pubblico parigino, disposte prima per un grande banchetto in onore di Otello vincitore dei Turchi, e poi a mo’ di giardino di una località termale dei primi del ‘900, attorno ad un buffet degno di un villaggio turistico.
Se a tutto questo aggiungiamo dei movimenti scenici alquanto bizzarri e meccanici, le ancelle del doge che passano la scopa e poi bagnano il terreno con dei diffusori che ricordano molto quelli che si usano per fertilizzare il terreno e tavoli ingombranti e pesanti, difficili da spostare, allora non si può esitare a definire la regia scadente, e le scene sgradevoli alla vista.
Fortunatamente le realizzazioni artistiche e i lavori mediocri vengono presto dimenticati, e così sarà per gli allestimenti di Flimm, totalmente ignorati dal pubblico che, invece, ha saputo concentrarsi su ciò che veramente era degno di nota: un cast sublime, un orchestra in piena forma e un’opera, l’Otello di Rossini appunto, che per troppo tempo è stata dimenticata e che invece rientra a pieno titolo tra i maggiori melodrammi operistici italiani.