Applausi calorosi e prolungati, acclamazioni e grida d’approvazione: è questo il tributo riservato dal pubblico scaligero al cast della sesta rappresentazione del Simon Boccanegra di Verdi e in particolare alla sua star d’eccezione, il maestro Plácido Domingo.
Le premesse per un buon esito c’erano tutte ma il trionfo finale è andato oltre ogni più rosea aspettativa; un Simon Boccanegra che, forse, passerà alla storia del Teatro alla Scala.
Tutte le attenzioni erano rivolte all’ormai settantatreenne Domingo che, in questa ultima parte della sua carriera, ha saputo reinventarsi genialmente e sapientemente come baritono. L’ormai ex tenore spagnolo, nei panni del title role, ha saputo interpretare con profondità ed attenzione quello che per personalità e caratterizzazione è uno dei più complessi ma allo stesso tempo affascinanti personaggi verdiani.
La trasformazione dell’immenso Domingo da tenore in baritono sa di prodigio; la voce non è mai titubante ma sempre equilibrata, pregnante e piena di colore.
Se alle straordinarie doti vocali aggiungiamo anche la presenza scenica e la perfetta immedesimazione nel personaggio allora il risultato è un Simone memorabile, a tutto tondo.
Il ruolo del doge sembrava ritagliato apposta per Domingo che ha saputo incantare il pubblico evidenziando e sviluppando ogni aspetto della complicata personalità del Boccanegra: padre affettuoso, uomo di stato saggio, autorevole e pacifico ma allo stesso tempo risoluto ed inflessibile nel momento della punizione dei cospiratori e dei criminali cittadini.
Picchi di perfezione vengono raggiunti nella scena della maledizione dove l’anatema lanciato dal doge, grazie alla bravura di Domingo, riempie tutto il teatro con la sua potenza verbale e musicale e in occasione del gran finale dove l’ex tenore è sublimemente perfetto: struggente nella voce, magistrale nei gesti e nei movimenti.
La standing ovation finale è il meritato premio di un artista che ha saputo rimettersi in gioco perpetuando una già trionfale carriera. Il Domingo tenore sarà immortale, uno dei più grandi di sempre; il Domingo baritono è un regalo dal valore inestimabile: profondo, maturo. Sommo.
La grandezza del protagonista dell’opera e della serata non deve però far dimenticare gli altri componenti del cast che si sono guadagnati anche loro l’assenso ed il plauso degli spettatori.
Il possente Fabio Sartori, nel ruolo di Gabriele Adorno, ha convinto tutti. Una prestazione praticamente perfetta; una potenza vocale straordinaria che colpisce per intonazione, estensione e capacità evocativa. Sartori non è mai apparso in difficoltà, ha dominato il personaggio dall’inizio alla fine contribuendo attivamente a quello che è stato poi il clamoroso successo della recita.
Orlin Anastassov, a parte qualche imprecisione vocale, è un Jacopo Fiesco di tutto rispetto che migliora nel corso dell’opera. Austero, severo e composto.
Il Paolo Albiani di Artur Rucinski vince e convince. Drammatico quando è costretto dal doge a maledire se stesso, vendicativo e macchinatore quando dà l’ordine di rapire Amelia o quando avvelena la brocca di Boccanegra. Prova canora interessante.
La primadonna Tatiana Serjan è apparsa scolastica e poco coinvolgente nel primo atto, salvo poi riscattarsi sia a livello di canto che a livello di recitazione nel resto dell’opera. I timidi ed incerti applausi dopo l’aria “Come in quest’ora bruna” all’inizio del primo atto sono apparsi più come un incoraggiamento che un vero e proprio tributo del pubblico.
La soprano di San Pietroburgo, una volta abbandonati i vibrati forzati del primo atto, sfoggia un’intonazione corretta anche se la voce non è particolarmente colorita. Nel complesso discreta la sua prestazione.
Un plauso speciale al maestro Daniel Barenboim che, avvicinandosi agli ultimi appuntamenti scaligeri come direttore musicale, dirige sapientemente una delle opere più profonde e tormentate di Verdi. Sul podio è incontenibile nei suoi ampi tocchi di bacchetta. L’orchestra lo segue fedelmente regalando momenti memorabili. Indimenticabile nel trionfale finale del prologo, sublime per tutta l’opera. Acclamazioni calorose che sono il tributo ad un grande maestro.
Il Wagner di Barenboim è eccellente, ma anche il suo Verdi non è da meno. Una potente risposta ai fischi a lui rivolti in occasione del Simon Boccanegra del 2010.
La ripresa della co-produzione tra il Teatro alla Scala e la Staatsoper Unter den Linden di Berlino (il Boccanegra era già andato in scena nel 2010) è stata vincente.
Le scene di Pier Paolo Bisleri lasciano però molti dubbi e perplessità; mortificata la piazza genovese dove si svolge il prologo da un’assurda rampa con corrimano. Di poco gusto l’ambientazione della dimora dei Grimaldi all’inizio del primo atto con alberi che spariscono per poi riapparire magicamente. Incoerente la scelta di vestire il popolo genovese con costumi ottocenteschi mentre i protagonisti sono vestiti in abiti trecenteschi.
Belli i costumi d’epoca di Giovanna Buzzi.
È stato un grande, grandissimo Simon Boccanegra portato al trionfo finale da un immenso (come sempre) Plácido Domingo, da un buonissimo cast e da un geniale Daniel Barenboim. Milano ringrazia.
Le premesse per un buon esito c’erano tutte ma il trionfo finale è andato oltre ogni più rosea aspettativa; un Simon Boccanegra che, forse, passerà alla storia del Teatro alla Scala.
Tutte le attenzioni erano rivolte all’ormai settantatreenne Domingo che, in questa ultima parte della sua carriera, ha saputo reinventarsi genialmente e sapientemente come baritono. L’ormai ex tenore spagnolo, nei panni del title role, ha saputo interpretare con profondità ed attenzione quello che per personalità e caratterizzazione è uno dei più complessi ma allo stesso tempo affascinanti personaggi verdiani.
La trasformazione dell’immenso Domingo da tenore in baritono sa di prodigio; la voce non è mai titubante ma sempre equilibrata, pregnante e piena di colore.
Se alle straordinarie doti vocali aggiungiamo anche la presenza scenica e la perfetta immedesimazione nel personaggio allora il risultato è un Simone memorabile, a tutto tondo.
Il ruolo del doge sembrava ritagliato apposta per Domingo che ha saputo incantare il pubblico evidenziando e sviluppando ogni aspetto della complicata personalità del Boccanegra: padre affettuoso, uomo di stato saggio, autorevole e pacifico ma allo stesso tempo risoluto ed inflessibile nel momento della punizione dei cospiratori e dei criminali cittadini.
Picchi di perfezione vengono raggiunti nella scena della maledizione dove l’anatema lanciato dal doge, grazie alla bravura di Domingo, riempie tutto il teatro con la sua potenza verbale e musicale e in occasione del gran finale dove l’ex tenore è sublimemente perfetto: struggente nella voce, magistrale nei gesti e nei movimenti.
La standing ovation finale è il meritato premio di un artista che ha saputo rimettersi in gioco perpetuando una già trionfale carriera. Il Domingo tenore sarà immortale, uno dei più grandi di sempre; il Domingo baritono è un regalo dal valore inestimabile: profondo, maturo. Sommo.
La grandezza del protagonista dell’opera e della serata non deve però far dimenticare gli altri componenti del cast che si sono guadagnati anche loro l’assenso ed il plauso degli spettatori.
Il possente Fabio Sartori, nel ruolo di Gabriele Adorno, ha convinto tutti. Una prestazione praticamente perfetta; una potenza vocale straordinaria che colpisce per intonazione, estensione e capacità evocativa. Sartori non è mai apparso in difficoltà, ha dominato il personaggio dall’inizio alla fine contribuendo attivamente a quello che è stato poi il clamoroso successo della recita.
Orlin Anastassov, a parte qualche imprecisione vocale, è un Jacopo Fiesco di tutto rispetto che migliora nel corso dell’opera. Austero, severo e composto.
Il Paolo Albiani di Artur Rucinski vince e convince. Drammatico quando è costretto dal doge a maledire se stesso, vendicativo e macchinatore quando dà l’ordine di rapire Amelia o quando avvelena la brocca di Boccanegra. Prova canora interessante.
La primadonna Tatiana Serjan è apparsa scolastica e poco coinvolgente nel primo atto, salvo poi riscattarsi sia a livello di canto che a livello di recitazione nel resto dell’opera. I timidi ed incerti applausi dopo l’aria “Come in quest’ora bruna” all’inizio del primo atto sono apparsi più come un incoraggiamento che un vero e proprio tributo del pubblico.
La soprano di San Pietroburgo, una volta abbandonati i vibrati forzati del primo atto, sfoggia un’intonazione corretta anche se la voce non è particolarmente colorita. Nel complesso discreta la sua prestazione.
Un plauso speciale al maestro Daniel Barenboim che, avvicinandosi agli ultimi appuntamenti scaligeri come direttore musicale, dirige sapientemente una delle opere più profonde e tormentate di Verdi. Sul podio è incontenibile nei suoi ampi tocchi di bacchetta. L’orchestra lo segue fedelmente regalando momenti memorabili. Indimenticabile nel trionfale finale del prologo, sublime per tutta l’opera. Acclamazioni calorose che sono il tributo ad un grande maestro.
Il Wagner di Barenboim è eccellente, ma anche il suo Verdi non è da meno. Una potente risposta ai fischi a lui rivolti in occasione del Simon Boccanegra del 2010.
La ripresa della co-produzione tra il Teatro alla Scala e la Staatsoper Unter den Linden di Berlino (il Boccanegra era già andato in scena nel 2010) è stata vincente.
Le scene di Pier Paolo Bisleri lasciano però molti dubbi e perplessità; mortificata la piazza genovese dove si svolge il prologo da un’assurda rampa con corrimano. Di poco gusto l’ambientazione della dimora dei Grimaldi all’inizio del primo atto con alberi che spariscono per poi riapparire magicamente. Incoerente la scelta di vestire il popolo genovese con costumi ottocenteschi mentre i protagonisti sono vestiti in abiti trecenteschi.
Belli i costumi d’epoca di Giovanna Buzzi.
È stato un grande, grandissimo Simon Boccanegra portato al trionfo finale da un immenso (come sempre) Plácido Domingo, da un buonissimo cast e da un geniale Daniel Barenboim. Milano ringrazia.